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  1. crippi
     
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    CITAZIONE (AlieNiko @ 2/10/2005, 13:16)
    bellissimo il link stigmate

    una cosa mi sono sempre chiesto da piccolo...e forse maia te lo sarai kiesta anke tu.

    Gli animali che tipo di linguaggio adoperano?
    Quando sentiamo un cane abbaiare, il latrato sembra a volte ritmico altre volte identico nel suono.

    Come sarebbe bello se un giorno imparassimo a capire il linguaggio degli animali.

    Ho trovato un articolo interessante sui delfini.

    Delfini Secondo il CNR
    Categoria: Animali

    I delfini “parlano”, questo si sa. La curiosità è che usano lingue diverse. Ovviamente è una semplificazione, per dire che anche questi mammiferi usano, come gli uomini, un idioma specifico per ciascun gruppo e, in parte, comprensibile solo da quello. Su questo argomento la sezione di Ancona dell’Istituto di scienze marine (Ismar) del Cnr svolge ricerche da molti anni, in collaborazione con diversi delfinari.
    “I delfini”, sostiene Massimo Azzali dell’Ismar-Cnr, “comunicano usando due linguaggi o segnali acustici: i suoni (frequenza (20kHz), detti segnali di vocalizzazioni, e gli ultrasuoni (frequenza tra 20 e 200 kHz), detti segnali sonar o di ecolocalizzazione, che presentano importanti differenze. Le vocalizzazioni sono innate e vengono prodotte in occasione di uno specifico evento e riflettono la reazione ‘emotiva’ a quello stimolo, come l’aggressività, la paura, il corteggiamento, lo stress ecc. I segnali sonar, invece, e la condivisione di tali percezioni/evocazioni che ne scaturiscono”, prosegue il ricercatore, “si imparano con il tempo e richiedono che nella comunità si sia formato un linguaggio sonar comune, ovvero una connessione suoni-immagini acustiche che valga per l’intera comunità”.
    Si può perciò presumere che il linguaggio sonar di una comunità richieda un lungo periodo di apprendimento da parte dei suoi membri più giovani perché esso contiene molti elementi tipici ed esclusivi di quella comunità.. Ed è probabile che i delfini per formare un gruppo debbano imparare a condividere le percezioni acustiche. “Solo dopo che si sono stabilite relazioni echi-immagini”, precisa Azzali, “che valgano per tutti i membri della comunità, nascono i rapporti sociali. Dai nostri studi risulta che gruppi diversi usino il linguaggio degli echi con modalità diverse. Per facilitare questi meccanismi, madre e figlio hanno un legame molto stretto per due-quattro anni, poi l’insegnamento passa dalla madre al gruppo”.
    Il giovane delfino impara dunque da lei e dagli altri individui del gruppo ad attribuire a un tipo di eco un certo oggetto e a emettere certi tipi di segnali in presenza di oggetti con certe proprietà acustiche, seguendo le convenzioni del suo gruppo. “Questo apprendimento”, conclude il ricercatore del Cnr, "potrebbe iniziare anche prima della nascita, perché i suoni si propagano quasi allo stesso modo nell’oceano e nel corpo della madre”.

    DANILO MAINARDI

    I delfini prendono coscienza

    Una serie di esperimenti dimostra che la percezione della propria identità non è esclusiva degli esseri umani
    L’autocoscienza, insieme con la consapevolezza degli effetti che i nostri atti hanno su noi stessi, su altri individui della nostra o di altre specie, sull'ambiente sociale o naturale, sono le più sottili, profonde, forse le più importanti conquiste evolutive che le nostre strutture biologiche ci hanno regalato. Uno specifico umano dunque, uno specifico che però trova, in altre specie, interessanti precursori. Il regno animale infatti, la grande patria comune, appare sempre più una formidabile miniera d'informazioni sul come e sul perché nella storia della vita, nostra e altrui, si siano raggiunte capacità intellettive che in noi umani trovano la più superba magnificazione.
    La sensazione che si trae da un'analisi comparativa è quella di un tragitto percorso gradualmente, o meglio ancora quella dell'esistenza di più percorsi paralleli. Tre, per quel che finora sappiamo, perché l'autocoscienza e barlumi di generale consapevolezza sono presenti non solo nei primati, ma anche negli elefanti e, recente ma non sorprendente scoperta, nei delfini. E poi chissà, perché gli indizi sono tanti e promettenti e potrebbero portarci lontano, perfino fuori dalla classe dei mammiferi. Le prove indiscutibili sono però, di fatto, limitate, e tutte fanno capo, per quanto concerne la consapevolezza del sé, soprattutto a un esperimento in apparenza banale ma illuminante, la "prova dello specchio".
    Banale perché lo specchio è uno strumento così comune che abbiamo perso il senso di cosa significhi la curiosità per il sé, il sé fisico intendo, ma si pensi all'effetto straordinario che questo magico strumento produce in chi si specchia per la prima volta. Per ciò gli esploratori d'altri tempi non dimenticavano mai di portare nei loro viaggi specchietti da regalare ai "selvaggi". Erano oggetti di immenso valore perché, finalmente, quegli uomini potevano avere risposte appaganti a domande essenziali. Come conoscere altrimenti la propria immagine? Specchiarsi in una pozza d'acqua? Ascoltare le altrui descrizioni? Niente vale uno specchio, perché all'essere umano non basta sapere come è fatto un uomo, non basta conoscere mille individui, vuole conoscere il sé. E lo scimpanzé, e il gorilla, e l'orango? E altri ancora? É affascinante seguire l'esperienza di uno scimpanzé posto per la prima volta di fronte a uno specchio. La sua prima reazione è palesemente quella di trovarsi di fronte a un altro individuo. Lo invita al gioco, alla zuffa. Poi però - non ci vuol molto - scopre che, qualsiasi cosa egli fa, l'altro la replica. Inizia così la fase sperimentale. Agita una mano, fa di proposito una boccaccia, una mossa strana. Rapidamente percepisce che nello specchio c'è un'immagine del sé. Segue, a questa emozionante fase, quella altrettanto intensa della curiosità per le sue fattezze, fase che può durare a lungo, perché lo scimpanzé intraprende uno studio minuzioso, guardandosi negli occhi e in bocca, mettendosi in pose funzionali per raggiungere visivamente parti del corpo altrimenti celate. Mi risulta davvero difficile raccontare, usando solo parole, la varietà di emozioni che scorrono, descritte dalle espressioni facciali, sul volto della scimmia che scopre nei dettagli la sua immagine. É uno spettacolo che, per essere compiutamente apprezzato, non può che essere visto.
    A ogni modo, questa della scoperta e dell'esplorazione del sé è solo il risultato d'un primo esperimento. Subentra poi l'applicazione, ad animali ormai esperti e addormentati, di segni o macchie in parti del corpo che non possono essere osservati se non con uno specchio. Per esempio su un sopracciglio, sul naso, su un orecchio. S'è così visto che, svegliandosi e specchiandosi, questi scimpanzé subito toccano le vere macchie, si annusano le dita, tentano di pulirsi e controllano, specchiandosi ripetutamente, il risultato della loro azione. Forniscono insomma una prova evidente di sapere che quell'immagine li rappresenta. Oltre ai grandi primati, e solo recentemente, esperimenti analoghi, che pure hanno offerto esito positivo, sono stati compiuti su elefanti indiani e su delfini tursiopi. Esiste poi, al di là dello specchio, un'altra conferma della consapevolezza del sé raggiunta dai grandi primati, ed è quella che passa attraverso l'acquisizione del nostro linguaggio verbale. Avendo le scimmie scarsa capacità imitativa vocale, s'è dovuto in vario modo tradurre per altre vie sensoriali il valore simbolico o descrittivo contenuto nelle nostre parole. Ciò s'è ottenuto con l'uso di un linguaggio gestuale (lo scimpanzé Washoe, il gorilla Koko), con l'uso di simboli concreti, cioè piccoli aggeggi magnetizzati ricoperti di plastica colorata da ordinare su una lavagna magnetica (lo scimpanzé Sarah), oppure con l'uso di una tastiera tale da consentire alla scimmia di organizzare risposte sullo schermo di un calcolatore (lo scimpanzé pigmeo Kanzi). Molto s'è discusso sul reale significato dei risultati acquisiti, ma un fatto almeno è chiaro: la consapevolezza del sé di quegli animali. E dovrei aggiungere, soprattutto a seguito dell'ultimo saggio pubblicato sul pappagallo cenerino Alex, pure addestrato a comunicare usando in modo appropriato le parole del nostro parlare, anche questo intelligente uccello tra le specie che possiedono autocoscienza. Devo, infine, ricordare quel fenomeno assai studiato che è l'autovalutazione (assessment). Molte sono infatti le specie (tra cui cani, cervi e mufloni) che per via empirica sono in grado di acquisire, attraverso il confronto con altri individui conspecifici, una consapevolezza (almeno) di certe loro importanti caratteristiche. É difficile valutare a pieno il significato del fenomeno, che pure sembra avere, in qualche modo, a che fare con una, evolutivamente primitiva, costruzione di una conoscenza del sé. Occorre ora accennare alla consapevolezza delle conseguenze del proprio comportamento, che può venire usata, dalle specie più intelligenti, per manipolare il comportamento altrui. É il caso, tra l'altro, delle menzogne consapevoli. Un esempio per tutti: molte sono le specie sociali che, altruisticamente, hanno evoluto una comunicazione in funzione antipredatoria. La comparsa improvvisa di un predatore evoca nell'individuo che lo scopre l'emissione di segnali allertanti gli altri membri del gruppo, che così possono sottrarsi alla predazione. Ebbene, in certe specie di uccelli (corvidi, lanidi e formicaridi) e di mammiferi (la volpe artica) compare talora, come iniziativa individuale, un uso improprio e ingannevole di questi segnali, che vengono usati, alla scoperta di una risorsa alimentare, per allontanare possibili concorrenti.
    Di questo tipo sono le evidenze principali dell'esistenza d'una primitiva consapevolezza in menti non umane. Una costellazione di menti evolutesi per essere adatte ad altri stili di vita e che perciò sono tra loro diverse, che per ciò sono per noi così difficilmente penetrabili, ma stimolanti proprio in quanto, seppure parenti, aliene. L'etologia cognitiva è un'area giovane e ancora poco esplorata del comportamento animale. Un'area che risulterà utile anche per comprendere le complessità e le diversità della mente umana.


    e ancora..... sui gatti

    I gatti sapienti

    Ha scritto Claudio Magris: “Il gatto sta per stare, come ci si stende davanti al mare solo per essere lì, distesi e abbandonati. E’ un dio dell’ora, indifferente, irraggiungibile”. Le parole affascinanti del grande scrittore triestino ritraggono il micio come un animale misterioso, una divinità dallo sguardo insondabile di cui ci è dato di sapere ben poco. E per certi versi è proprio così.
    Quando si pensa di avere le idee chiare sul piccolo abitante del nostro salotto, una nuova scoperta ci riporta al punto di partenza per spiegarci che il gatto è sempre più veloce, sempre più agile, sempre più pigro, sempre più scaltro. Le ricerche sulla sua capacità di apprendimento continuano a dare risultati sorprendenti e ormai il micio è considerato tra gli animali più intelligenti. Quando il peso del suo cervello viene paragonato al peso del corpo, si ottiene infatti un rapporto superiore a quello di tutti gli altri mammiferi fatta eccezione solo per le scimmie e per i delfini.
    Non solo, ma visto che il cervello del gatto è molto simile al nostro in quanto a funzionalità e struttura, studiarlo ci aiuta a comprendere meglio anche la natura umana. Lo aveva intuito molto bene il filosofo francese di fine Ottocento Hippolyte Taine che scrisse in un suo libro: “Ho studiato molti filosofi e molti gatti: la saggezza dei gatti è infinitamente superiore.”
    Ma cosa può fare il micio con la sua intelligenza? Prima di tutto impara in maniera estremamente rapida, adattandosi così ai cambiamenti dell’ambiente. E poi dimostra di possedere una memoria infallibile. Di recente, Jules Masserman e David Rubinfine, ricercatori della Facoltà di Psichiatria dell’Università di Chicago, hanno addestrato un gruppo di gatti a contare. Utilizzando dei recipienti contenenti leccornie, che si possono aprire soltanto premendo un pedale un determinato numero di volte, i ricercatori hanno osservato che in pochissimo tempo i gatti imparano il corretto numero di operazioni per ottenere la ricompensa. Un risultato importante, che è servito anche per capire come sia possibile imparare a contare senza possedere un linguaggio vero e proprio. Studi del genere pongono le basi per un ipotetico insegnamento dell’aritmetica ai bambini in modo completamente diverso, ossia non verbale.
    Ma siamo sicuri che i gatti non possano anche parlare? In verità lo fanno ogni giorno, perché il loro miagolio è un sistema di comunicazione rivolto esclusivamente al padrone. E’ come se il micio si fosse accorto delle nostre difficoltà e avesse deciso di “parlare” come facciamo noi, usando la voce. Tra di loro infatti i gatti vocalizzano raramente e solo i piccoli lo fanno quando chiamano mamma gatta. Il nostro micio, che ci considera un po’ come i suoi genitori, usa quindi una vasta gamma di suoni per richiamare l’attenzione, quando ha fame, quando vuole uscire di casa, quando vuole semplicemente salutarci o quando un oggetto di casa è fuori posto e ha sconvolto la sua routine. Negli anni ’30 la psicologa Mildred Moelk aveva individuato sedici diverse espressioni vocali che i gatti riservano ai padroni, e recentemente la ricercatrice Patricia McKinley ne ha scoperti addirittura 23.
    Ma è anche esistito un vero e proprio gatto parlante. Si chiamava Mesi e viveva a Mosca. Agli inizi degli anni Ottanta attirò l’attenzione di giornalisti e scienziati di tutto il mondo perché sembra fosse in grado di pronunciare correttamente il suo nome. Quando la padrona gli chiedeva “Come ti chiami?”, il micio rispondeva “Mesi”. E quando gli veniva chiesto dove abitasse, rispondeva chiaramente “Mosca”. In realtà poi venne scoperto che, a causa di una malformazione della laringe, Mesi emetteva miagolii molto simili alla voce umana.
    ROBERTO ALLEGRI

    Miao.... Miao

     
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144 replies since 2/10/2005, 10:28   2175 views
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